Medicina Generale


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presentazione romanzo

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L’assassino non è un angelo
(Presentazione)

…Due cadaveri in una stanza d’albergo chiusa dall’interno. Una finestra a strapiombo sul mare dalla quale solo avendo le ali un eventuale assassino sarebbe potuto fuggire dopo aver commesso gli efferati delitti. Un enigma, quindi inesplicabile e apparentemente senza soluzione.
Un altro cadavere interviene, poi, a complicare ulteriormente la vicenda.
Ma il professor Dondi, medico legale, non crede agli angeli cattivi e, sostenuto da una logica lucida e rigorosa e, avvalendosi della sua consumata esperienza, incomincia a valutare altre possibilità. Partendo, così, da labili indizi, costruisce, con disarmante chiarezza le sue straordinarie ipotesi.
E alla fine dimostrerà che… l’assassino non è un angelo.

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“L’assassino non è un angelo” è un poliziesco classico, rigorosamente scientifico, ambientato negli anni Cinquanta. Affronta l’enigma per eccellenza, “il delitto commesso in una camera chiusa dall’interno”, un enigma quindi impossibile e, apparentemente, senza soluzione.
Chi si interessa di letteratura sa che il romanzo poliziesco è nato in una camera chiusa dall’interno. E’ lì, infatti che Edgar Allan Poe, uno dei più geniali creatori di esperienze letterarie, ha ambientato “I delitti della via Morgue”, il primo romanzo poliziesco della storia (1841). E nel suo cammino verso la maturità, in quella camera chiusa, il poliziesco è tornato più volte. E’ questo, infatti, uno dei temi più dibattuti dai giallisti del passato. E’ un pezzo di bravura obbligato. Vi si sono avventurati Zangwill, Collins, Gaboriau, Conan Doyle, Leroux, Wallace, Futrelle, Van Dine, Ellery Queen, tanto per citarne alcuni. John Dickson Carr, che in questo campo è stato uno dei più prolifici, in un suo romanzo, “The Hollow Man” (tradotto in italiano col titolo “Le tre bare”), ha fatto addirittura un elenco dei modi possibili per commettere un delitto in una camera chiusa.
Ma perché la camera chiusa ha sempre interessato gli scrittori di polizieschi? Perché il delitto commesso in una camera chiusa dall’interno rappresenta l’enigma per eccellenza?
Anzitutto perché tale enigma appare da subito inesplicabile. Di conseguenza, coinvolge il lettore, lo incuriosisce. Egli vuol sapere chi è stato a commettere il delitto, ma vuol sapere soprattutto come ha fatto. Ed è curioso anche di vedere come se la caverà l’Autore. Quale soluzioni sarà capace di escogitare. E se tali soluzioni saranno ben congegnate e plausibili. Poi, come sosteneva Austin Freeman, il padre del Poliziesco Scientifico, per dare al lettore la possibilità di competere con il protagonista, di seguirlo fra le pieghe dell’enigma e di apprezzare la solidità o meno della trama, è necessario che la vittima, il criminale e i vari sospettati si muovano in un ambiente chiuso, limitato, affinché i loro atti si intersechino in modo intelligibile. Senza limiti spaziali le azioni dei vari personaggi si disperderebbero in rapporti diluiti e sconclusionati.
Una camera chiusa dall’interno è quindi una palestra difficile, adatta sicuramente a saggiare l’abilità di un autore di polizieschi.
Nel nostro caso, abbiamo i cadaveri di due coniugi in una stanza d’albergo. La porta è chiusa dall’interno. Ad una prima superficiale analisi sembra che l’uomo abbia prima sparato alla signora e che poi, con la stessa arma, si sia ucciso. Ma qualcosa non convince. Il procuratore, allora, chiede la consulenza di un vecchio amico, un anziano e bizzarro medico legale che, dopo aver esaminato con cura i cadaveri ed analizzato ogni elemento utile a chiarire la dinamica degli eventi, dimostra in modo dettagliato e convincente che è avvenuto esattamente il contrario di ciò che si era supposto all’inizio. Per cui, devono partire le indagini.
Trattandosi di un Poliziesco Scientifico, il protagonista principale del romanzo non può che essere un uomo di scienza. E’infatti un medico, quindi, un professionista dell’osservazione scientifica. Si chiama Dondi, è professore di medicina legale, è anziano ed anche un po’ bislacco. E’ un accanito fumatore di pipa e un forte bevitore di cognac. Tuttavia è dotato di una lucidità cristallina, di una cultura solida, e di un talento non comune.
Ecco due esempi di come viene descritto:
“… Per Dondi era un giorno qualunque. Ed anche il suo volto arcigno era quello di sempre, così come i suoi abiti, che si intravedevano sotto l’ampio camice sbottonato: pantaloni spiegazzati, grigio topo, sdruciti nelle tasche; camicia azzurrina, lisa al collo e nei polsini, panciotto in tweed a scacchi verdi e blu. Abiti fuori tempo, come chi li indossava, decisamente demodé. Tuttavia dal quel fisico alto e asciutto, incanutito precocemente, ma con il piglio di un ragazzo, assorbivano vitalità. E sembravano quasi belli…”
“… Aveva un carattere decisamente spigoloso, il professore, dei modi burberi e spesso irritanti, ma non era antipatico. Lo salvava, forse, quel pizzico di stravaganza con cui infarciva la sua vita o l’ironia che piazzava un po’ ovunque, anche fuori luogo spesso, ma che comunque serviva a togliere drammaticità ad una professione che lo portava a convivere con la morte. In certi momenti, faceva quasi tenerezza. Era un uomo solo, in fondo, solo con i suoi cadaveri. E quei cadaveri, per lui, non erano solo macabri corpi senza vita, reperti raccapriccianti, magari mutilati, sfigurati, decomposti, erano anche degli amici, depositari di importanti verità che rivelavano solo a chi sapeva interrogarli..”.
Essendo un Giallo rigorosamente scientifico, nulla è lasciato al caso o all’improvvisazione. La trattazione scientifica e il ragionamento logico caratterizzano, infatti, l’intera l’opera.
Già dal primo capitolo, che è un capitolo introduttivo, utile solo per presentare i personaggi e per iniziare a profilarne il carattere, emerge il taglio del romanzo. Osservare e descrivere, dice il professore, non si deve inventare niente. Dedurre semmai. Metodo scientifico, quindi e logica deduttiva.
Anche Poe sostiene che le azioni umane obbediscono a leggi ben precise, come se fossero fenomeni fisici. E che pertanto sono prevedibili. Il criminale è una forza in movimento. Di conseguenza l’investigatore deve essere uno scienziato che ne calcola la traiettoria. Nel compiere la sua opera scellerata il criminale lascia sulla scena degli indizi, dei segni. Se valutati con cura, quei segni porteranno sicuramente alla soluzione del caso, poiché se è vero che le azioni di un individuo sono dettate esclusivamente dalla sua logica, ogni delitto porterà la firma di chi lo ha commesso.
E incomincia, così, la storia.
Per tutto il romanzo, i medici legali fanno semplicemente il loro mestiere: esaminano i cadaveri, rilevano tracce, raccolgono indizi. Ma le conclusioni che scaturiscono dalle loro osservazioni si rivelano sempre sconcertanti. E ogni volta il procuratore, che è il titolare dell’inchiesta, appare scettico. Del resto, le tesi del professore, a prima vista, sembrano insostenibili. Ma con un’analisi lucida e dettagliata dei fatti, lui ne dimostra sempre l’attendibilità. E quello che sembrava un delitto impossibile, viene presto scardinato. E come per incanto, si profilano all’orizzonte diverse soluzioni possibili. Vari sospettati si alternano. Addirittura, più volte si arriva a credere di essere ad un soffio dalla soluzione, ma poi, inevitabilmente, tutto viene rimesso in discussione da nuovi accadimenti e si è costretti a ripartire dall’inizio.
Molti autori sostengono con un certo orgoglio di scrivere i loro romanzi pressoché di getto, aiutati da una naturale ispirazione. Per quanto mi riguarda, invece, non ho difficoltà ad ammettere che nessuna parte di questo romanzo è frutto del caso o dell’improvvisazione e che il lavoro è portato avanti faticosamente, con lo scrupolo e la precisione di un’operazione matematica.
“L’assassino non è un angelo” risponde in pratica a ciò che aveva teorizzato Freeman. Egli asseriva infatti, che un autore di romanzi polizieschi prima di iniziare a scrivere, deve avere già ben chiara la soluzione del caso e tutti i sistemi utili a raggiungerla. E’ da lì, infatti, che deve partire per costruire poi con scrupolo e rigore e senza tradire mai il lettore, tutti i passaggi intermedi dell’opera.
In questo modo, lo scrittore di romanzi polizieschi diventa nel contempo un creatore, poiché deve immaginare l’opera, un logico, perché deve sostenerla con dei ragionamenti, e uno scienziato, perché deve necessariamente possedere idonee conoscenze scientifiche.
Il protagonista di un Romanzo Poliziesco inteso in questo modo ha sempre bisogno di una “spalla”. I grandi maestri lo sapevano. Sapevano pure che questa spalla non doveva essere scelta a caso. Essa ha un ruolo troppo importante. E per svolgere appieno questo ruolo deve avere l’ingenuità e la logica della persona comune. Solo così risulterà complice del lettore e, nello stesso tempo, un valido sostegno del protagonista.
Ne “L’assassino non è un angelo”, come si è detto, il protagonista principale è il professor Dondi. Viene, quindi, di pensare che la spalla sia il suo assistente, il dottor Milani, un medico certamente attento e scrupoloso, ma giovane e privo di esperienza. In realtà, però, non è così. Più che una spalla, infatti, il dottor Milani è una costola del professore, il suo completamento. La vera spalla è sicuramente il procuratore Amorini, che è un uomo integerrimo, preparato, ma, tutto sommato, comune, senza fantasia. Esattamente il contrario del professore. Adatto più di ogni altro, quindi, ad interpretare la logica del lettore.
Ed ecco come viene presentato il procuratore:
(Cap. 2)
“… Era un uomo tutto d’un pezzo il procuratore. Attento, scrupoloso, sagace, ma tutto d’un pezzo. E non sapeva ridere. Non aveva riso nemmeno quella volta che su un giornale, per un errore tipografico al colpevole di un atroce misfatto era stato affibbiato il suo nome. E al vero criminale erano andate invece le lodi per la brillante operazione. Eppure avevano riso tutti in procura. Ma la vita per lui era un dramma. E come tale andava presa sul serio…
…La sua professione, in effetti, non favoriva il buonumore. Omicidi, percosse, stupri e violenze di ogni genere erano il suo lavoro. La malvagità con cui aveva a che fare ogni giorno era in grado di spegnere qualunque ilarità. Quel volto sempre preoccupato, quindi, e quella tristezza irremovibile, non erano solo espressione di un carattere chiuso e malinconico, ma rappresentavano anche lo stato d’animo logico e inevitabile di chi vive a contatto col male. Comunque fosse, il suo volto era plasmato ormai per esprimere unicamente assillo, tormento, inquietudine. Ogni piega, ogni ruga, ogni piccola increspatura, serviva solo a questo. E in quel momento lo dimostrava chiaramente…”
Anche fisicamente il procuratore è esattamente il contrario del professore.
“… considerando le schiene dei due uomini che lo precedevano, il giovane medico si rese conto di quanto fossero diverse: tanto era lunga e spigolosa una, tanto era breve e composta l’altra. Altrettanto diverse erano pure le gambe e la testa. Tutto ciò che si vedeva di quei due era diverso, persino i lobi delle orecchie. E altrettanto diverso era ciò che non si vedeva: il carattere, ad esempio. Veniva quindi da pensare che fosse proprio questa loro dissomiglianza a renderli amici. Ma forse non era così. Anziché sulle tante differenze è più probabile che la loro amicizia poggiasse su quel poco che avevano in comune, come l’attaccamento al proprio lavoro e la convinzione appassionata in ciò che stavano facendo…”
Il procuratore è, comunque, un uomo preparato. Anche lui segue scrupolosamente il metodo scientifico dell’investigazione. Conosce bene il suo mestiere, così come conosce la criminologia e le sue leggi. E lo dimostra ogni volta che riflette sulla possibile colpevolezza di un indiziato:
(Cap. 5)
“… continuò a fissare quell’uomo con sgarbata insistenza. Analizzò la sua testa minuta, la fronte bassa e sfuggente, gli zigomi angolosi, le grandi orecchie. Considerò le sue spalle esili e puntute, il misero torace, le braccia smisurate e scarne. Tornò poi a riguardarlo in volto. Esaminò le labbra sottili e gli occhi, piccoli e tondi come bacche di sambuco.
Annuì. Era convinto di trovarsi di fronte ad un individuo con temperamento schizoide. Presentava, infatti, tutti quei caratteri che Lombroso aveva definito "stimmate degenerative". E se uno schizoide non sempre è un criminale, pensava, bisogna ammettere che tra le due condizioni esiste una certa correlazione.
Tipo leptosomico, astenico, di conseguenza schizoide e, pertanto, potenzialmente criminale. Questa era la conclusione del procuratore dopo aver trascorso lunghi attimi a mordicchiarsi le labbra. Quell’uomo, secondo Lombroso poteva benissimo essere un lestofante, un ladro, magari anche un assassino.
Ma perché proprio lui? Quali motivi avrebbe potuto avere?
E poi il naso non quadrava. Era lungo, magro, tagliente. Il contrario di quei nasi immaginati in faccia ai criminali, che sono larghi, tozzi, rincagnati. E poi Goring respingeva con veemenza la teoria delle stimmate degenerative. Egli, che si basò sempre su metodi rigorosamente scientifici, non riuscì mai a dimostrarne la validità. Anzi, dopo aver fatto uno studio comparativo fra le misure cefaliche di vari detenuti con quelle degli undergraduates, osservò in tono sprezzante che con la semplice valutazione dei caratteri fisici di uno studente è più facile capire da quale università proviene che prevedere se diventerà un criminale.
Raccolse una boccata d'aria e scosse la testa. No, pensò, forse il suo aspetto non c'entra. Perlomeno non è giusto avere preconcetti. E, senza dire niente, si avviò verso la porta…”
Rigore scientifico, coerenza logica, analisi deduttiva…
Tutti i canoni del “Poliziesco Classico” sembrano rispettati, ma non è proprio così. Nel poliziesco classico, infatti, spesso si analizza con esasperante pignoleria l’enigma, ma si trascurano i personaggi, che si ritrovano a muoversi fra le maglie della trama come fantasmi, figure diafane senza un carattere, senza una storia, figure appena abbozzate, che stentano ad avere un volto e persino un nome.
In questo romanzo, invece, i personaggi fanno parte integrante della storia. Anzi. Esiste la storia proprio perché esistono loro, perché è la loro storia. E questo si avverte da subito.
Vediamo come vengono presentati alcuni protagonisti:
(Cap.3)
“… Il signor Tozzi, direttore e proprietario dell’albergo, era un uomo grosso e sanguigno. Aveva spalle robuste e fianchi larghi; la schiena era poderosa. Il mento quadrato e una ruga verticale in mezzo alla fronte rivelavano uno spirito tenace e battagliero. Ma gli occhi erano piccoli e spenti, non possedevano la lucentezza tipica di chi ha una mente fervida. Eppure negli affari era stato un genio. Partendo dal niente, infatti, aveva costruito una fortuna…”
Da subito, quell’uomo appare sgradevole. Ha fatto fortuna senza essere eccessivamente intelligente, si è portati a pensare, quindi, che sia un individuo rozzo e senza scrupoli. Ma in seguito, quando, viene interrogato e racconta la sua storia, almeno in parte, ci si deve ricredere.
(Cap.8)
“… Avevo rilevato quel negozio che era poco più di una bottega di cianfrusaglie, ma l’ho curato e l’ho fatto crescere. E con lui è cresciuta la clientela e sono cresciuto io… la sua voce si incrinò… perché anch’io ho avuto bisogno di crescere. Sono figlio di braccianti, signor procuratore. Ed anch’io ero un bracciante. E crescere braccianti sull’Appennino Emiliano, tra il passo della Cisa e il Taro, significa crescere con la pelle spaccata dal sole, dal gelo, le ossa piegate dalla fatica, lo sguardo annacquato dal sudore. Ma la volontà… Strinse un pugno, lo sollevò, lo fissò… La volontà diventa di granito, dura, tenace, come la roccia che sorregge la chiesetta sul passo… e non mi sono rassegnato. Ho preso un treno e sono sceso a Milano. Avevo in tasca solo i soldi per il biglietto, ma mi sono adattato. Ho lavorato giorno e notte. Avevo mani grandi e forti e la schiena solida e il sole non mi aveva ancora liquefatto il cervello…”
Il portiere dell’albergo ha, invece, un viso da capretto e un fisico scombinato.
(Cap.11)
… Nato povero tra Boretto e Guastalla, cresciuto storpio fra le nebbie della Bassa e rimasto povero, nei ritagli di tempo Bruno Carpi dipingeva. E i suoi quadri erano esplosioni di luce e di colori, quei colori e quella luce che mancavano alla sua vita, piatta e tutta uguale come la sua pianura. Forse aveva talento, ma non era favorito dalla sorte. Era un outsider, un escluso, pertanto pericoloso, potenzialmente un criminale…”
E Tozzi, il direttore dell’albergo, racconta:
“… L’ho conosciuto in una trattoria. La sua polenta mi fumava davanti, lo spezzatino pure… mi parlò di suo padre, morto suicida in carcere, di sua madre provata dalla sorte dall’alcol, poi mi parlò di lui, della sua passione per la pittura, del suo male e della sua gamba matta. E mi fece pena. Era povero, sfortunato come me, ma io avevo la salute, avevo braccia forti, muscoli d’acciaio. La sua salute invece era minata, il suo fisico di pastafrolla e di muscoli non ne aveva proprio. Solo pelle e qualche osso sbilenco. E non aveva nemmeno una dimora. Dormiva dove capitava, per le stalle, fra le bestie. E per campare disegnava. Una matita e quattro fogli erano il suo bagaglio… gli proposi allora di venire da me. C’era odore di muffa, di nafta nell’autorimessa che avevo affittato, ma almeno non vi era puzzo di strame…”
Il conte De Ambris, ha, invece, tutto un altro stile.
(Cap. 6)
“… Un linguaggio colto, dei modi misurati e una figura nel complesso elegante, rivelavano un passato d’indefiniti splendori. Anche la sua età era indefinita. Alto e magro, diritto e solido, poteva essere un vecchio mantenutosi in forma, ma anche un giovane precocemente invecchiato. Dell’età matura possedeva il grigiore dei capelli e lo spessore della pelle. Che lo rendevano giovane erano i suoi occhi chiari, luminosi, la sua andatura spigliata, la sua vitalità. Il suo corpo armonico e i suoi movimenti calibrati davano pregio anche all’abito che indossava: ottimo tessuto, ottima fattura. Ottimo anche il colore, grigio fumo di Londra. Qualche segno di usura, però, sparso qua e là, tradiva la sua annosità. Era certo un modello d’altri tempi, come si poteva capire dal taglio, ma ben si accordava con i modi di quell’uomo, che erano anche quelli d’altri tempi…”
Lui è un uomo colto e spesso si lascia andare a dotte disquisizioni.
“… Sono uno scrittore, uno studioso dell’animo umano, un cronista della vita, e mi affascina tutto ciò che rompe la monotonia dell’usuale. Ma questo caso mi affascina in modo particolare. Sento che merita attenzione, che va esaminato con cura. Potrebbe rappresentare lo spunto per un romanzo poliziesco. Spesso la realtà supera la fantasia, specie quando si parla di crimini e di criminali. E’ arduo stabilire dove può arrivare la mente diabolica di un genio omicida. E noi scrittori, quando ci troviamo di fronte a tanta manna che cadde dal cielo, dobbiamo coglierne a piene mani. Basta osservare, annotare, considerare. Quando il germe spunta bisogna saperlo coltivare e, sicuramente, elargirà frutti gustosi…”
“… Questo caso mi affascina perché rispecchia l’enigma per eccellenza. Un delitto commesso in una camera chiusa dall’interno, un enigma impossibile, quindi. Di conseguenza, senza soluzioni logiche. Praticamente è un delitto perfetto”
Il professore interviene:
“… Il delitto perfetto non esiste, dice, i delitti sono commessi dagli uomini e tutto ciò che è fatto dall’uomo rarissimamente sfiora la perfezione, mai la raggiunge”
Ma l’interlocutore non si arrende:
“… Può darsi che lei abbia ragione, ma è solo un’arida questione terminologica, nessuno può negare, infatti, l’esistenza del delitto impunito. Anche l’investigazione, purtroppo, è fatta dall’uomo. Di conseguenza anche quella mai è perfetta…Ed ecco allora la grande interminabile sfida. Da una parte l’investigatore con la sua logica, le sue astuzie, i suoi obiettivi. Dall’altra il criminale con altre logiche, altre astuzie, soprattutto con altri obiettivi. Uno serve la giustizia, l’altro cerca di eluderla. Uno insegue la verità, l’altro la confonde. Ed entrambi si scontrano con le stesse circostanze, gli stessi imprevisti, sempre difficilmente controllabili, avversi o favorevoli che siano. Si scontrano poi con le capacità dell’avversario e, prima ancora, con le proprie debolezze. E’ un gioco che affascina, seduce, benché spesso sia giocato nel sangue...”
E ancora:
(Cap. 10)
“… Questo caso è raffinato, degno davvero di finire sugli annali del crimine… O forse no. Forse sugli anali del crimine non ci finirà mai. E’ troppo colto. La criminologia è una scienza miope e grossolana. Basa le sue teorie su crimini rozzi e volgari e su criminali maldestri. Nei suoi annali, infatti, trovano spazio solo quei soggetti che si sono fatti acciuffare Quelli che l’hanno fatta franca non fanno casistica. Né partecipano alla formulazione di teorie...”
Precisazione del professore:
“…La soluzione più adatta per un enigma poliziesco è comunque quella giusta, qualunque essa sia. I casi clamorosi sono rari. Più spesso la verità si nasconde nelle misere cose di tutti i giorni. Ecco perché gli annali del crimine traboccano di delitti mediocri. Non sono romanzi, ma semplici resoconti di tante piccole verità. E l’importanza della criminologia sta proprio in questo: fondare le sue leggi su fatti veri, scrupolosamente autentici, benché spesso ordinari.
Riflessione del professore sull’indagine:
“… Cos’è l’indagine? E’ una diligente ricerca di indizi seguita da una loro sistematica valutazione? E’ un’attenta analisi di ogni elemento utile alla soluzione del caso? Certo, l’indagine è anche questo. Ma non solo. L’indagine è anche intuito, fantasia. Soprattutto è spirito di osservazione. Senza di questo, Zadig di Voltaire vedrebbe sulla neve solo le orme di un animale, Di quell’animale, invece, capisce tutto o quasi. Alla volpe di Esopo, poi, lo spirito di osservazione salva addirittura la vita. Essa, infatti, rifiuta di entrare nella tana del leone. Anche lei ha visto delle orme di vari animali. Ma ha notato che sono tutte rivolte verso l’entrata e che nessuna esce. Anche negli indizi più insignificanti, diceva Maupassant, è racchiuso un po’ di mistero. E certamente anche un po’ di verità…”
Si continua a disquisire.
“…Sono sicuro che chi ha commesso questo delitto è un omicida. E non un assassino. Assassino ed omicida sembrano sinonimi. Ma in realtà non lo sono. Identificano due tipi criminali ben diversi. Il primo è uno squilibrato, uno psicopatico. Per lui uccidere è necessario. Il seconda ne farebbe volentieri a meno. L'assassino, compiendo il suo gesto malvagio, è convinto di fare cosa giusta, di essere dalla parte della ragione. Non condivide le leggi e le trasgredisce. Non condivide la società e la punisce. Si rifà ad un famoso pensiero di Diderot, secondo il quale, per l'uomo accorto, non devono esistere leggi. Esse sono soggette ad errore. Tocca a lui, quindi, decidere se seguirle od infrangerle. Jack lo squartatore, quando usciva la sera con la sua valigia nera, aveva in animo di uccidere. Egli era un assassino. L'omicida, invece, uccide solo per interesse. Solo ed esclusivamente per questo. Se potesse raggiungere il suo scopo senza fare vittime, ne sarebbe felice. Sa di mettersi contro tutti e tutto: le leggi, la ragione, la sua stessa natura. Di conseguenza, arriverà ad uccidere solo quando la posta in gioco sarà veramente alta. O da lui ritenuta tale.
Tema essenziale del romanzo è comunque sempre la ricerca puntigliosa della verità.
(Cap. 15)
“…Verità e menzogna vanno a braccetto e si coprono a vicenda, dice il professore. Non esiste la verità fino a quando non viene smascherata la menzogna. E non esiste la menzogna se non si conosce la verità...
…Per definire la verità è indispensabile la prova. Una prova certa e inconfutabile. Nemmeno la confessione può produrre la certezza della verità: potrebbe essere sollecitata dalla paura, o dalla voglia di mettersi in mostra, o da semplice masochismo. Addirittura potrebbe essere estorta da investigatori eccessivamente zelanti. Per non parlare poi della testimonianza. Quella è davvero un veleno, come diceva Bacone...”
Il professore parla della testimonianza:
(Cap. 15)
“… L’uomo comune vede spesso ciò che vuole vedere, anche in buonafede. Due testimoni oculari non vedranno mai la stessa identica verità. Ed anche se si tralascia il mendacio doloso, rimane il pericolo di errori disinteressati commessi inconsapevolmente. Sfortunatamente, i sensi s’ingannano con facilità. Provate ad incrociare le dita e a far scorrere i polpastrelli lungo il naso. Apprezzerete due nasi. Questa è l’illusione di Aristotele, un esempio di inganno tattile. Anche l’udito è ingannato facilmente. E questo fatto viene sfruttato dai bari e dagli artisti della truffa. Il ventriloquo ad esempio sfrutta la scarsa sensibilità direzionale dell’orecchio. Dapprima parla con voce normale, poi si risponde con voce alterata senza muovere le labbra. Ma è il suo atteggiamento che conta. Egli si comporta come se a parlare fosse un altro. Cosicché, a chi ascolta pare davvero che a parlare sia un altro…. E chi non sarebbe pronto a giurare di aver visto chi è stato a sparare se udendo un’esplosione si girasse e vedrebbe un uomo con una pistola in mano? Anche nella buona fede si può celare l’imbroglio. E’ anche per questo che la storia del crimine pullula di errori giudiziari...
(Cap. 14)
…Troppo spesso la verità è mistificata dall'illusione (dice Dondi) Ogni individuo sano, normale e consapevole, vede distorto un bastone immerso per metà nell'acqua. Ed è pronto a giurarlo. Il bastone infatti appare deformato. Ma è solo un'illusione. Ed è singolare ammettere che in questo caso solo un cieco non può essere ingannato. Vedere bene è spesso dannoso, poiché si è portati a basare tutto su ciò che appare trascurando l'essenza stessa della realtà. S'inganna meglio chi riesce a seguire tutte le tappe dell'inganno. E questo lo sanno bene gli illusionisti, i maghi, i prestidigitatori. Ed anche gli assassini….”
“… Ho l’impressione che si stia giocando al gioco delle tre campanelle. (Dice ancora Dondi) Quello che gli antichi egizi chiamavano “su dal sotto”. Oggi viene definito gioco del guscio di noce o delle tazze e sfere o delle tre campanelle, ma il trucco è ancora lo stesso. L’imbroglione, sotto lo sguardo attento degli astanti, dispone in fila tre coni rovesciati. Poi, lascia andare una pallina sotto ad uno di essi e, con movimenti calibrati, cambia più volte la loro posizione. L’allocco crede di sapere sotto quale cono sia finita la pallina e non esita a scommettervi sopra una somma di denaro. Naturalmente, perde. Ma anziché smettere, fissa con rinnovata attenzione il movimento dei coni e scommette ancora. Ovviamente perde di nuovo. E perderebbe all’infinito. Non ha alcuna possibilità di vincere, poiché il trucco sta a monte. Il truffatore, infatti, anziché lasciar cadere la pallina sotto ad uno dei coni, la trattiene fra le dita. E tutto ciò che segue è solo messinscena. I suoi movimenti, infatti sono rapidi e decisi, ma ancora facilmente controllabili. Solo così può essere perpetrato l’imbroglio. Se il gonzo perdesse il controllo della pallina, non scommetterebbe più. E’ questo il punto. Egli è furbo nella misura in cui serve che lo sia, né più e né meno. La sua è una furbizia controllata, guidata, ed è utile solo a chi lo vuole imbrogliare. E se anche in questo caso il trucco fosse a monte? E se la pallina fosse ancora fra le dita di chi ci vuole imbrogliare?…”
Altro personaggio del romanzo è un acrobata egiziano.
“… Era nato in una casa di sassi, sulla riva sinistra del Nilo. Era cresciuto fra lo sterco dei cammelli e non era andato a scuola. Ma aveva imparato ad orientarsi col sole. Aveva capito che vi erano altre rive in altre parti del mondo e, presto, si era messo in cammino… ma ora si era fermato. Si era impigliato in un guaio più grosso di lui e non vedeva il sole, non sapeva orientarsi… Nonostante la sua bravura e il suo coraggio, da quando aveva perso la testa per Wanda, una ballerina del varietà, il denaro non gli bastava più. Allora si era messo a rubare. Camminava sui tetti di notte, vestito di nero, silenzioso come un’ombra. Penetrava nelle case dalle finestre aperte, rovistava per le stanze e si riempiva le tasche. Ma un paio di volte fu acciuffato e costretto a soggiornare in carcere. Giorni lunghi e vuoti e notti insonni trascorse a guardare il soffitto di una misera cella, a soffocare la gelosia e ad aspettare la libertà. La ballerina intanto si guadagnava la vita esibendo il proprio corpo: gambe lunghe e tornite, seni rotondi, una pelle d’avorio. I suoi occhi, maliziosi e ammiccanti, diventavano languidi la sera, davanti ai riflettori, sul palcoscenico logoro di un’esistenza inventata giorno per giorno, tra fischi e battimani, oscenità e speranze, umiliazioni e vanità. Ma era ambiziosa e guardava in alto. E l’egiziano nemmeno lo vedeva, nonostante avesse muscoli di pietra e il cuore grande e fosse più giovane di lei…
Poi vi è Gianni Tondino, considerato da tutti il ragazzo dell’albergo.
(Cap. 12)
“… non era orfano, anzi, aveva ancora entrambi i genitori, ma erano poveri e abitavano in una baracca sul fiume, nei pressi di Fiumaretta. La madre allevava polli e conigli. Il padre faceva il pescatore. E quelle rare volte che saliva all’albergo, lo faceva di nascosto. Portava pesce, uova e carne. Poi ripartiva a testa china, giù per la scogliera, tra il rosmarino e il mirto, con quattro soldi in tasca. I due nemmeno si guardavano. Erano così diversi che nemmeno sembravano parenti. Tanto era chiaro e delicato il figlio, tanto era ruvido e scuro il padre. Ma erano entrambi taciturni. E avevano nello sguardo la stessa diffidenza…”
Vediamo infine chi erano i coniugi assassinati:
(Cap.2)
“… Dirigevano una congrega strampalata di umoristi, maghi giocolieri e saltimbanchi che davano spettacolo di sera per le vie e nelle piazze durante le feste di paese. La maggior parte dei componenti il gruppo erano artisti sconosciuti e rassegnati a rimanere tali. Ma non mancavano giovani ambiziosi che si mettevano in mostra con vigore sperando un giorno di volare più in alto. E neppure mancavano nomi noti, artisti di un certo valore che, per raggiunti limiti di età o per i danni arrecati loro dall’alcol o da una vita dissoluta, avevano dovuto abbandonare le luci sfavillanti del teatro o del varietà, per esibirsi a quella più opaca di un faretto arrugginito, su un palco spesso improvvisato…
…Tuttavia, nell’insieme piacevano. Per assistere ai loro spettacoli la gente faceva prima la fila davanti al botteghino di legno che, ogni volta, veniva allestito in mezzo ad una strada, poi riempiva la prospiciente piazza. Sgranava gli occhi e, a tratti, rimaneva col fiato sospeso. Altri momenti, invece, si lasciava andare a fragorose risate. La situazione finanziaria del gruppo, comunque era sempre in dissesto. Un’amministrazione scriteriata lasciava le casse della compagnia costantemente vuote. E gli artisti spesso lavoravano per niente. Solo i coniugi Perdetti vivevano nel lusso…”

E poi vi sono altri personaggi ed altre situazioni, ma è meglio che mi fermi.
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Ecco alcuni stralci del romanzo. Possono servire per dare un’idea sulla sua impostazione e per avere un primo approccio con i protagonisti. E’ ovvio però che, per entrare nella storia e accompagnare il professor Dondi lungo i meandri di un enigma impossibile fino a giungere, insieme a lui, alla sconvolgente soluzione del caso, il romanzo va letto. A questo punto, quindi, l’autore si ritira. Ha fatto la sua parte. Ora tocca ai lettori.



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